Opera
A volte essere un chirurgo non è facile.
No, non sto parlando di quando si deve dire ad un familiare, ad una moglie o ad una madre, che il marito o il figlio non ce l’hanno fatta, che l’operazione presentava dei rischi e che ci sono state delle complicazioni, che è stato fatto il possibile. Come se a loro bastasse il possibile, come se non gli avessi letto negli occhi che ti chiedevano l’impossibile, non il possibile.
Non sto parlando nemmeno di quando devi operare e tua moglie ti ha appena lasciato e la mano ti trema, non perchè stai invecchiando, no, nemmeno perchè hai bevuto, ma perchè sei così incazzato che lo spezzeresti tra le dita quel bisturi o lo infileresti in un occhio al primo che ti rivolge la parola, magari proprio a quello che te l’ha portata via.
E non sto parlando di quando devi operare un bambino di quattro anni, caduto correndo dalle scale, altro che playstation. Lì immobile con la schiena aperta e meno di mezzo centimetro che lo separa da una sedia a rotelle o da un’altra caduta, da una partita a pallone, da una vita banalmente normale.
Sto parlando di quando devi curare persone che non vorresti mai incontrare nella tua vita, quando sei tentato di sbagliare: nessuno se ne accorgerebbe, una complicazione, un’emorragia, un taglio poco più profondo. Potresti pulire un po’ di merda. Potresti fare un gran piacere a tutti.
Invece sono qui e vedo i miei assistenti e gli infermieri che sudando sotto le cuffie. Dietro la porta ci sono due uomini della polizia in giubbotto antiproiettile, parlottano, tanto sanno che nessuno disturberebbe questa operazione. E i cattivi sono tutti fuori, pronti a rimediare a qualsiasi mio errore.
Altri medici prima di me hanno rifiutato. Per soldi o prestigio potevano, io no, a me non l’hanno chiesto, e chi è con me adesso lo sa e sono voluti rimanere proprio per questo. Sono venuti a casa mia, sabato pomeriggio, quando c’era anche mia figlia, per farmelo capire.
(nella foto: una famosa Opera)