E il cane?
– Che fa il cane?
– Legge.
– Cosa? Il tuo cane sa leggere?
– Anche, ma volevo dire che è iscritto a giurisprudenza.
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– Che fa il cane?
– Legge.
– Cosa? Il tuo cane sa leggere?
– Anche, ma volevo dire che è iscritto a giurisprudenza.
Tokio di notte è una città incredibile, con le luci che sembrano sottare contro una cappa di velluto nero che cade sulla città, le poche macchine che corrono sulla sopraelevata e qualche voce che viene dal basso. L’ultima volta che c’ero stato la città era ancora ferita, bruciata dai bombardamenti degli americani, una città di legno distrutta da bombe di ferro.
Sarà l’aria, con il vento che spira da mare, con questo odore così diverso dal mare di qualsiasi altro posto, sembra quasi una fogna a cielo aperto, ma è l’odore di Tokio e i giapponesi che curano così tanto l’olfatto, con quella compostezza da ikebana ormai sembrano non accorgersi più del cattivo odore. Prima della guerra avevano fatto lo stesso con il loro governo e dopo avevano smesso quasi subito di guardare cosa stava succedendo intorno a loro. Tokio rimane immobile sotto questo cielo nero, da sola.
Una canzone giapponese della fine dell’ottocento diceva "Tokio, semplice come il sapore della pesca", che sia semplice Tokio ormai è improbabile, vista da qui è un reticolo di luci che ricorda Tron, forse solo i postini conoscono le strade di questa città dove non vi sono animali randagi, dove tutti indossano una divisa anche quando voglio essere diversi dagli altri.
Da qui non si vede, però in fondo a qualche strada, ci sono passato oggi, c’è uno degli ultimi chioschi che vende cibo in mezzo alla strada, una specie di carretto di legno, dove non esistono le forchette. Poco più avanti c’è un negozio di oggetti per la cucina, con tutta una serie di coltelli giapponesi prodotti in Cina, dopo c’è un negozio di cellulari e lettori mp3. Adesso sono tutti chiusi, tranne il carretto, ma tra poco chiuderà anche lui.
(continua)
– Papà mi racconti una favola?
– Ma stu scassacazzo, fotti a dormire
– Allora mi metto a piangere e chiamo il telefono azzurro.
– Va bbuono, però io sono mamma.
– No tu sei solo ricchione.
– C’era una volta un bambino piccolo piccolo, la mamma lo chiamava Pollicino, poi siccome rompeva troppo il cazzo, come a te, perchè zompava sempre e si nascondeva nelle ‘ngogne per poi fare "Bu!", la mamma decise di portarlo a sperdere nel bosco, uso cane sull’autostrada.
– Stai cercando di dirmi qualcosa?
– No io ti vado a sperdere dai zengari.
– Ma tu guarda stu strunz, fotti a continuare ne pallareta.
– Il bambino che sapeva che la madre era nu piezz e’zoccol e si immaginava già che lei lo voleva sperdere, così lasciò delle tracce colle mullechelle di pane, era pure scemo come a te, che poi lì era pieno di uccelli, e quindi non fece altro che far ingrassare ancora di più quegli schifosi piccioni zoppi che stavano da quelle parti…
– E poi come continua sta cazzo di favola?
– Sai che poi non mi ricordo come fernisce? visto che gli uccelli si mangiarono le briciole, come cazzo tornò a casa?
– Se ci stavi tu, gli aucielli te li magnavi tu, ma dalla porta di dietro.
– Mo te lo faccio chiamare io buono a telefono azzurro.
– E allora io non ti dico come finisce la storia.
– E come finisce?
– Che Pollicino attacca ad alluccare che la mamma è na zoccola e che chi lo porta a casa ha un bucchino gratis. Così tornò a casa.
– E chi te le impara ste cose?
– Mugliereta, prima ca se ne fuiesse co chiancaro.
"Non lo so, forse dovrei parlare di più, forse la vita non è solo questo, Entony lui forse alla mia età si poneva le stesse domande, cercava le stesse risposte."
– Ehi bello! Sono di sotto, smettilla con i tuoi problemi del cazzo alla Davide Toffolo e andiamo a rapinare questa banca.
Il sole era alto ed era quasi mezzogiorno, la macchina con le ruote anteriori sul marciappiede sembrava volersi mangiare l’alberello stentato che il comune aveva piantato nel cemento qualche anno prima. Viste dall’alto le ombre erano quasi inesistenti e il riverbero bianco faceva capire che non eravamo in una di quelle città del cazzo dove i figli di papà si uccidono di canne dalla mattina alla sera.
– Allora? tutto ‘sto tempo ci vuole?
– Ci ho messo cinque minuti.
– E’ troppo lo stesso.
C’era poco traffico e la macchina viaggiava tranquilla, accompagnando le curve con accellerazioni decise, chi guidava fingeva di stare facendo un rally, testa di cazzo, sì, ma tanto lo faccio anche io.
– E’ tutto pronto?
– Sì.
– Sei sicuro?
– No.
(continua)
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